Nel centenario della Riforma Gentile... una lezione dal passato?

Il centenario della Riforma Gentile si sta concludendo in un silenzio quasi assordante. Pure, per capire dove siamo e dove andiamo, è essenziale sapere da dove veniamo, magari, facendo a meno delle incrostazioni ideologiche e dei luoghi comuni: occorre liberare la mente e andare, come al solito, alla lettura diretta dei testi. Ciò dovrebbe consentirci di cassettizzare tutti quei manuali infarciti di misconvinzioni. 
La Riforma Gentile non era una riforma fascista, ma il frutto estremo del pensiero liberale. E Giovanni Gentile si avvalse in effetti di tutto il materiale preparatorio approntato dal suo predecessore, Benedetto Croce, dal quale ereditò anche un amministrativo esperto e capace quale Leonardo Severi, nonché del circolo che, da Ernesto Codignola a Giuseppe Lombardo Radice, si era venuto a creare attorno all'idealismo pedagogico. Un circolo, importante evidenziarlo, di pedagogisti concreti, approdati come lo stesso Gentile al mondo accademico attraverso l'insegnamento scolastico, secondo un meccanismo di interscambio e permeabilità buttato nel cestino dai decreti delegati negli anni Settanta. 
La Riforma Gentile non era una riforma classista, ma profondamente aristocratica, nel senso etimologico del termine: se da un lato era indirizzata ad aumentare i tassi di alfabetizzazione e scolarizzazione per la generalità degli italiani (in tale logica, Gentile promosse il passaggio dell'istruzione professionale dal ministero dell'economia a quello dell'istruzione, ) dall'altro era spietatamente volta a selezionare oi aristoi, i migliori. E non poteva essere diversamente, viste le biografie dei suoi autori: figli di modesto e onesto ceto impiegatizio o dalla vita familiare economicamente travagliata, andati avanti a forza di borse di studio e merito. 
Infine, ed è un punto su cui vale la pena trattenersi un attimo, la Riforma Gentile non era quella caserma illiberale che a volte viene presentata. E a volte presenta tratti ben più liberali, dal punto di vista didattico pedagogico, di alcuni impianti attuali. 
Prendiamo i programmi dell'istruzione media, inferiore e superiore, posto che i programmi Lombardo Radice per le elementari stanno a sé. Leggiamoli. Sono, di fatto, programmi d'esame, scanditi su ampi periodi e che lasciano una straordinaria libertà di scelta su strade, percorsi, modalità: «Art. 3 - In ciascun istituto, alla fine dell' anno scolastico e non più tardi del 30 giugno, il Collegio dei professori sceglierà, su proposta del professore della classe e della materia, i libri di testo e stabilirà, inoltre, la parte dei programmi da trattare nelle singole classi, per le singole materie, in modo tale che al termine del corso gli alunni siano pronti a sostenere l'esame prescritto»; «Art. 4 - Nei corsi biennali la deliberazione di cui al primo comma del precedente articolo dovrà riguardare la distribuzione della materia di tutto il biennio, nei corsi triennali e quadriennali quella, rispettivamente, di tutto il triennio e di tutto il quadriennio. Ma se la cattedra muti di titolare potrà il Collegio deliberare una nuova distribuzione del programma nella parte non ancora trattata su motivata proposta scritta del nuovo professore».
Sono programmi nozionistici? No. Certo, manca tutto il corredo di scenari, indicazioni, prescrizioni culturali, modellizzazioni di idealtipi di bambini, alunni... manca il concetto astratto (o la concettualizzazione?) di competenza... Certo, i programmai d'esame elencano contenuti, ma l'acuto lettore potrà verificare, nelle indicazioni per gli esaminatori, l'insistenza sulla conversazione, sulla discussione, sulla lettura diretta dei testi. Potrà anche notare la progressione delle richieste, via via più complesse di esame in esame... «L'esame consisterà nella lettura ed esposizione del contenuto d'un brano degli autori citati, notizie intorno all'autore letto, valutazione estetica e storica di esso. Analisi d'un'opera che il candidato avrà dichiarato d'aver particolarmente studiato» (sia detto per inciso, i programmi arrivavano alla letteratura all'epoca considerata contemporanea), mentre «una recitazione mnemonica di forme e regole grammaticali non accerta se non un vano esercizio di memoria, laddove occorre piuttosto accertare la capacità d'uso della grammatica». Per non parlare dei programmi di filosofia... Che poi pessimi docenti trasformassero, ieri come oggi, le indicazioni normative in pessima didattica (e pessimi risultati) era ed è vero. Ma le idee, si sa, camminano sulle gambe degli uomini. A volte sbilenche.
Piuttosto, ferma restando l'infungibilità di quel modello di scuola, che corrispondeva a una società (o a un'idea di società) radicalmente diversa dalla società contemporanea, a volte mi chiedo se un ritorno a quella sobrietà di impianto non possa essere ben più rispettoso dell'autonomia delle istituzioni scolastiche e della libertà di insegnamento della piega ben più culturalmente prescrittiva presa in Italia dagli anni Settanta ad oggi. Forse, anche, sarebbe un impianto dal quale gli organi collegiali potrebbero impossessarsi di un protagonismo tanto affermato dalle norme quanto, di fatto, sovente nullificato dall'inerzia, dall'abitudine, dalle mode, dalla compilazione, col risultato di perdere il ruolo di dare una impronta (correlata alla realtà, e non frutto di narrazioni) alla specifica autonomia scolastica. Non è forse un caso che quel modello sia normativamente in vigore, attraverso l'adozione di un syllabus nazionale, nei sistemi di istruzione storicamente basati sull'autonomia, come quelli di matrice britannica.

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