Orientare al Classico? Chi e come...


Il MIM ha reso pubblici, pressoché in tempo reale, i dati sulle iscrizioni complessive, raffrontati con l'anno scolastico 2023/2024 e il dettaglio relativo alla secondaria di secondo grado. Il tema non mi appassiona particolarmente. La «gara» tra i percorsi mi lascia di ghiaccio e ritengo molto più interessante sapere in quali di essi la scelta si traduce in successo formativo e in quali no: perché tra un percorso dove entrano in dieci ed escono in otto e un percorso dove entrano in cinquanta ed escono in venticinque è forse il primo, e non il secondo, a dimostrarsi efficace. Ma colgo l’occasione per fare o un paio di riflessioni, legate tra di loro. La prima, riguarda l'orientamento in uscita dalla secondaria di primo grado; la seconda, il liceo classico. 
L’orientamento al termine del primo ciclo non è una novità. Può essere articolato più o meno bene. Motivato, rendendo la valutazione del consiglio di classe personale, alle volte addirittura sartoriale, visto che arriva a identificare non solo il percorso, ma l’istituzione scolastica ideale; oppure spannometrico, compilato sulla base di modelli standardizzati che sfiorano il grottesco, superficiale, abitudinario, secondo la gerarchia piramidale liceo, tecnico, professionale. 
L'idea della scuola secondaria di primo grado quale percorso (anche) orientativo nasce con la legge 1º luglio 1940, n. 899, sola parte della Carta della scuola di Giuseppe Bottai ad essere (almeno in parte) realizzata e dedicata all'unificazione, in un unico percorso, dei vecchi gradi inferiori canalizzati della riforma Gentile. All'articolo 1, con formula semplice e diretta (e mi domando per quali imperscrutabili motivi le norme non si scrivano più così), era stabilito che «la Scuola media, con i primi fondamenti della cultura umanistica e con la pratica del lavoro, saggia le attitudini degli alunni, ne educa la capacità, e in collaborazione con le famiglie, li orienta nella scelta degli studi e li prepara a proseguirli». Postilla necessaria: l'umanesimo, per Bottai, era per così dire "rinascimentale". Toccava le materie letterarie e quelle scientifiche. Era un approccio, non una gerarchizzazione. Sia come sia, l'intera norma e i programmi, frutto di anni di ascolto delle scuole e di una formidabile squadra di tecnici (tra cui Luigi Volpicelli, il maestro tra gli altri di Alberto Manzi) si raccomanda ancor oggi (al netto dei richiami ideologici, beninteso, pure estremamente ridotti) per molti aspetti di modernità e, mi sia consentito dirlo, sensatezza. Al termine di ogni anno (art. 18), ad esempio, «dopo la formulazione del giudizio finale, il consiglio di classe sotto la guida del preside, traccia un profilo della personalità di ciascun alunno, che mira ad accertarne il grado e i modi del processo di maturità. Il consiglio di classe, all'inizio del secondo e del terzo anno scolastico, prende visione di questi profili, al fine di orientare la propria opera educativa». E potrei proseguire... Resta che, a determinare il giudizio orientativo finale, erano anche, e inevitabilmente, elementi di carattere disciplinare (art. 19): «I risultati nelle prove d'italiano e di latino decidono dell'ammissione al liceo classico e all'istituto magistrale; quelli d'italiano e matematica, dell'ammissione al liceo scientifico e ai vari tipi di istituti tecnici; quelli d'italiano e disegno, dell'ammissione al liceo artistico». 
L'orientamento, ora come allora, non è un momento finale che possa essere decontestualizzato. È l'esito di un processo di apprendimento, prima ancora di essere correlato alle inclinazioni. E qui sta il nodo. Chi ha raggiunto un buon livello di apprendimento nelle discipline oggetto di studio (al netto del Profilo dello studente al termine del primo ciclo di istruzione, che non corrisponde a dire la verità a nessun tredicenne di mia conoscenza, né di conoscenza di alcune migliaia di miei docenti/studenti… ma sarà un limite nostro) può scegliere tra l’intera rosa dei percorsi secondari. Può, in sostanza, seguire le proprie inclinazioni. È libero. Chi ha lacune in questa o quella disciplina, no, a meno di andare incontro a un pronosticabile insuccesso o di compiere sforzi disumani per completarlo.
Se è vera la premessa, la flessione nelle iscrizioni al Liceo Classico è, per molti versi, un atto di saggezza consapevole da parte degli alunni. Al netto delle inclinazioni personali, della passione per questa o quella disciplina, senza una padronanza sicura della lingua italiana, senza cioè aver esercitato lungo gli otto anni del primo ciclo la capacità di scrittura e senza essere in possesso di un patrimonio lessicale ampio, mancano i requisiti di base per affrontare lo studio del greco e del latino e per esercitare la competenza traduttiva: perché mancano, letteralmente, le parole; manca la capacità di (ri)strutturare le frasi. Il carico cognitivo diventa insopportabile. Senza ali, non si vola.
Attenzione. Ciò non significa affatto che il liceo classico sia più difficile di altri percorsi o che richieda più studio. Ancora oggi vedo orientamenti verso gli istituti tecnici, come se un indirizzo di meccatronica o di amministrazione, finanze e marketing fosse più semplice. Quasi ogni percorso ha una quota di discipline “nuove”, peculiari di ciascun indirizzo. Ma alcune di queste, segnatamente il greco e il latino, richiedono competenze di base che non sono recuperabili. Che poi si arrivi, bene o male, alla fine del ciclo, è altro discorso… ma in quattordici anni di esami di Stato, la lettura delle “seconde prove” è lì a dimostrarmi dove nascono i problemi e perché. 
La flessione nelle iscrizioni al classico è strettamente correlata a ciò che si fa, o non si fa, nel primo ciclo. Nasce nel primo ciclo. Sottolineo primo ciclo intero, e non secondaria di primo grado, cui di solito si getta la croce, perché l’insufficienza negli strumenti nasce da prima e poi si perpetua anche perché, in alcuni casi, non può non perpetuarsi (come hanno sempre saputo empiricamente i buoni maestri, e come oggi certificano le neuroscienze). 
Nasce dall’uso compulsivo delle schede fotocopiate e dei correlati “quadernoni ad anelli” (ricordo una scena del film Miss Potter, nella quale la protagonista imponeva all’incredulo editore di stampare libri piccoli, perché un grande albo il bambino non riesce a maneggiarlo… e basta guardare le posture al banco della primaria). Nasce dal mancato esercizio continuativo della composizione scritta (per la quale tutto fa brodo, e ci metto anche la parafrasi, con le argomentazioni che Paola Mastrocola ha ottimamente tracciato) che significa anche e soprattutto esercizio della capacità di articolare un pensiero (quanto aveva ragione Wittgenstein ad asserire che «i confini del nostro linguaggio rappresentano i confini del nostro mondo»!). Nasce dalla sciatteria (che non è la semplicità…) del linguaggio di troppi libri di testo, ridotti a un vocabolario base di poche centinaia di parole, per poi magari strillare in copertina d’essere preordinati alle competenze o all’inclusività…  come direbbe Totò, «ma mi facci il piacere!». E non parliamo di quelle antologie che pappettano i testi letterari... 
Ovviamente, la scarsa padronanza nella lingua italiana si riverbera anche negli altri percorsi, in misura minore o maggiore, ma al classico è più evidente e catastrofica, direi esiziale, proprio per la natura delle sue discipline di indirizzo e dei risultati di apprendimento richiesti dagli ordinamenti. 
In queste settimane di «dibbattito», sulla supposta crisi del classico ne ho sentite di ogni. Faccio mio il precetto andreottiamo, secondo il quale è opportuno parlare solo di cose di cui si può dir bene, e mi taccio, anche se la tastiera mi prude, e dico ripartiamo dal primo ciclo, torniamo alle basi, torniamo a imparare a camminare e facciamo a meno degli orpelli. Ci sono maestre e maestri (pochini, questi ultimi), professori e professoresse che ottengono ancora oggi risultati ottimi e i cui allievi padroneggiano bene la lingua italiana: qualcuno meglio, qualcuno peggio, ma mai sotto la soglia. È una padronanza che dona loro la libertà di scelta. Spesso mi dicono di sentirsi soli e soprattutto pressati. Li invito a resistere. Perché a volte il buon esempio contagia e perché la loro libertà di insegnamento crea la libertà dei loro alunni.

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