Abbecedario... Accogliere gli alunni e abbozzare l'ambiente di apprendimento

«L'ambiente di apprendimento è il contesto fisico, sociale, culturale, relazionale attraverso il quale si sviluppa il processo di insegnamento/apprendimento.
Costituiscono l'ambiente di apprendimento, dunque, non solo l’aula, gli strumenti didattici presenti, la disposizione dei banchi e dell’eventuale cattedra, ma le persone, alunni e insegnanti, le relazioni che si sviluppano, le regole che governano il patto d’aula, le scelte didattico-metodologiche (il cosa e il come si insegna e si impara, senza dimenticare le motivazioni: perché scelgo un argomento? Con quale obiettivo? Perché dovrei impararlo?)».

Se intendiamo il mediatore didattico come «un supporto chiamato a facilitare il processo di insegnamento/apprendimento», l’ambiente di apprendimento è un macro-mediatore didattico, ed è il motivo per il quale ho scelto «attraverso il quale» e non «nel quale», «si sviluppa» e non «ha luogo» o «si situa»: perché è, contemporaneamente, il sistema entro cui i mediatori dispiegano la loro azione, ma è mediatore a sua volta. Attenzione: è per sua natura SEMPRE dinamico, è un imprevedibile panta rei, perché muta al mutare di ogni elemento. 

La definizione che propongo è, come si vede, asettica. È valida tanto per l’aula ottocentesca, con le file di banchi in legno, il predellino e la lezione frontale, quanto per l’assetto a isola, poniamo nel corso di una sessione di «cooperative learning», quanto per la scuola peripatetica. L'ambiente di apprendimento è esistito da sempre. Casomai, si è fatta via via strada una più radicata consapevolezza della sua rilevanza e infittiti gli studi sulla sua composizione, tutti più o meno riconducibili, nei tratti essenziali, alla teoria della comunicazione elaborata da Roman Jakobson.

Se si passa a una dimensione valutativa, l’ambiente di apprendimento è positivo, e dunque efficace, nei casi in cui aiuti e sostenga i processi di insegnamento/apprendimento, negativo se li blocca o li impoverisce. Categorie come tradizionale o innovativo non sono a mio avviso significative, perché introducono un criterio fallace, quasi che ogni innovazione sia «meglio» per definizione, a prescindere. 

Come in ogni campo della didattica, non esistono formule infallibili, perché ogni tecnicalità, se è calata aprioristicamente sul contesto e non sciolta e declinata nel contesto, è un esercizio calligrafico. Ottenere e mantenere un ambiente di apprendimento efficace chiama in campo la consapevolezza la progettazione del percorso, la duttilità necessaria a cambiare la rotta o l’assetto delle vele ogni qual volta ci si renda conto che qualcosa non funziona a dovere, soprattutto l'avere chiaro l'obiettivo: come scrisse Seneca a Lucilio, nella Lettera 71, «Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est, non esiste vento favorevole, per il marinaio che non sa dove vuole approdare».

Bene. Come accogliamo gli alunni, il patto d’aula che iniziamo a definire con loro, come impostiamo la prima attività didattica sono momenti decisivi. Danno l'imprinting. Prenderne coscienza e operare con consapevolezza, pur sapendo che ci si muove anche sbagliando, è un ottimo inizio. Il patto d'aula, per l'appunto, che definisco come «l’insieme delle regole, funzionali a favorire un clima positivo, che parte da una ricognizione delle aspettative e dei comportamenti attesi che alunni e docenti confrontano per arrivare alla maggior condivisione possibile», è un'intelaiatura fondamentale. 

Con due attenzioni: la prima è ai pregiudizi, da intendersi in senso tecnico e non moraleggiante. Sono personalmente stanco della raffigurazione che si fa delle varie generazioni attualmente in età scolare, con tanto di etichettamento buono per gli hashtag e per la generazione seriale di bias. Ultima, lo «stupidario della maturità», sul quale non saprei dir meglio di Edoardo Prati, con l’aggiunta che sono decenni che simili raccolte sono compilate, ogni luglio, con le stesse modalità e lo stesso pianto greco. Anni fa, mi capitò, di fronte a un brano del De Officiis conciato per le feste, di domandare al candidato se Cicerone soffrisse di ubriachezza mentre scriveva, tanto priva di senso era la traduzione. Ma non per questo l’ignoranza di uno mi nascose le doti di altri… Occorre spogliarsene, dei pregiudizi, perché sono solo «un’idea», a volte scombinata, della realtà. Ma la realtà, che è ben diversa e meravigliosamente varia, all'occhio attento rivela dettagli oltre il velo delle «narrazioni». Solo, i pregiudizi (le famose «nomee») contribuiscono a costruire il fenomeno della «profezia che si autoavvera». Ovvero, le mie convinzioni mi portano ad assumere atteggiamenti che hanno come conseguenza proprio ciò che paventavo: e l’atteggiamento, soprattutto nelle prime battute di un incontro, è tutto. 

La seconda avvertenza è evitare i mascheramenti, pur se scelti con le migliori intenzioni. Perché una classe, qualsiasi sia il grado,  comprende istintivamente e immediatamente l'autenticità o l'inautenticità del docente. Per fare qualche esempio cinematografico (una miniera immensa, tra l'altro), tra il professor Hundert del Club degli imperatori e il Keating dell’Attimo fuggente, tra Mr Chips e O’professore Filodomini ci sono distanze siderali, come potete vedere nei video linkati. Ma tutti fanno leva sui propri punti di forza e sulla capacità di leggere e modellare l’ambiente di apprendimento, non su improponibili torsioni o travestimenti: non si diventa re, se si è da sermone.

Ho elaborato, per una vostra possibile verifica, due schede operative, in word, adattando gli indicatori e le domande chiave dell'Index per l'inclusione: la prima, Il patto d’aula è improntato al mutuo rispetto; la seconda, Gli alunni sono coinvolti nelle attività di apprendimento. Le schede sono tra loro correlate, perché, come non mi stanco di ripetere, diritto e didattica vanno a braccetto. 

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