Abbecedario. Parliamo di programmazione annuale: quello che è essenziale, è perfetto...
Ovviamente, così una programmazione non funziona ed è
vissuta dai docenti come un carico burocratico, una compilazione, più o meno
scaricata da internet o scopiazzata dai libri di testo.
Eppure, la programmazione ha, al fondo, una sua razionalità
didattica che dovrebbe tornare al centro del processo di redazione. Intanto, motiviamo.
Può sembrare banale, ma chiedersi «perché devo programmare» aiuta, come tutte
le domande, a inquadrare la questione.
Perché programmare, dunque? Perché «lo dice la legge»? Per
liberarci delle «molestie» della segreteria didattica, del DS, delle varie
figure strumentali? NO. Si deve programmare perché, se non si sa esattamente
dove si vuole andare, si naviga a vista e si naufraga… molto semplice. Come
scrisse Seneca a Lucilio, nella Lettera 71, «Ignoranti quem portum petat
nullus suus ventus est, non esiste vento favorevole, per il marinaio che
non sa dove vuole approdare».
Possiamo sprecare tempo a copiaincollare, o investire tempo
per programmare bene e abbozzare una rotta. Abbozzare. Perché ogni
programmazione si incontra poi con la realtà del giorno per giorno e ne viene
modellata e perché alla base di qualsiasi programmazione sensata c’è una
consapevole autoanalisi e una autovalutazione di cosa potrebbe essere possibile
fare, a partire dall’ambiente di apprendimento.
E veniamo a cosa programmare. Gli elementi essenziali li
troviamo nel DM 226/2022, che regola il periodo di formazione e di prova, all’articolo
4, comma 3: «Il dirigente scolastico garantisce la disponibilità per il docente
in periodo di prova del piano triennale dell'offerta formativa, del rapporto di
autovalutazione (RAV) e della documentazione tecnico-didattica relativa alle
classi, ai corsi e agli insegnamenti di sua pertinenza, sulla cui base il
docente in periodo di prova redige la propria programmazione annuale, in cui
specifica, condividendoli con il tutor, gli esiti di apprendimento attesi, le
metodologie didattiche, le strategie inclusive e di sviluppo dei talenti, gli
strumenti e i criteri di valutazione, che costituiscono complessivamente gli
obiettivi dell'azione didattica... La programmazione è correlata ai traguardi
di competenza, ai profili culturali, educativi e professionali, ai risultati di
apprendimento e agli obiettivi specifici di apprendimento previsti dagli
ordinamenti vigenti e al piano dell'offerta formativa».
La norma dà conto (e non può che farlo) delle diverse
terminologie adottate negli ordinamenti didattici dei vari cicli e gradi di
istruzione che, come noto, appartengono a stagioni politiche diverse e a un
dialogo solo episodico e non sistematico tra estensore normativo, demiurgo pedagogico-didattico,
istituzioni scolastiche. Il primo mette dentro quel che gli viene detto, spesso
non conoscendo il significato dei termini adottati dal secondo, che solitamente
di normativa nulla sa né vuole sapere, mentre le terze stanno, purtroppo,
solitamente sullo sfondo, senza margini di intervento o condivisione. Ma tant’è.
Sino a una auspicabile bonifica ed essenzializzazione linguistica, occorre
prendere l’ordinamento di riferimento e tenerlo sullo sfondo.
Il docente del primo ciclo si ancorerà ai traguardi di sviluppo
per le competenze e agli obiettivi di apprendimento, ovvero ai campi di
esperienza se impegnato alla scuola dell’infanzia, come declinati dal curricolo
di istituto. Se quest’ultimo «non funziona», proprio il test della
programmazione sarà il punto di partenza per cambiarlo in maniera sensata.
Quanto al docente del secondo ciclo, guarderà ai risultati
di apprendimento generali previsti dal PECUP del secondo ciclo, e dai risultati
di apprendimento specifici indicati dai PECUP dell’istruzione liceale, tecnica
e professionale e dai PECUP peculiari dei vari percorsi, per lo più
trasversali, nonché dalle competenze disciplinari e dagli obiettivi previsti.
Per chiarire qualche termine, i risultati di apprendimento «descrivono, in termini generali, ciò che un alunno, in possesso di un’adeguata formazione iniziale dovrebbe conoscere, comprendere ed essere in grado di fare al termine di un determinato percorso di studi». I traguardi per lo sviluppo delle competenze (riporto dal testo delle Indicazioni nazionali 2012) «rappresentano dei riferimenti ineludibili per gli insegnanti, indicano piste culturali e didattiche da percorrere e aiutano a finalizzare l’azione educativa allo sviluppo integrale dell’allievo. Costituiscono criteri per la valutazione delle competenze attese e, nella loro scansione temporale, sono prescrittivi, impegnando così le istituzioni scolastiche affinché ogni alunno possa conseguirli, a garanzia dell’unità del sistema nazionale e della qualità del servizio». Gli obiettivi (specifici o meno… a seconda del legislatore) di apprendimento, come stavolta ben delineato sempre dalle IN 2012, «individuano campi del sapere, conoscenze e abilità ritenuti indispensabili» per raggiungere «i traguardi per lo sviluppo delle competenze» / le competenze disciplinari previste dagli ordinamenti didattici; «sono utilizzati dalle scuole e dai docenti nella loro attività di progettazione didattica, con attenzione alle condizioni di contesto, didattiche e organizzative mirando a un insegnamento ricco ed efficace». Attenzione: perché gli obiettivi costituiscono il denominatore comune vincolante, ma nulla vieta di arricchirli.
I punti di riferimento cui correlare la programmazione dunque
cambiano. Ma sono punti di riferimento che vanno conosciuti. Perché altrimenti
la programmazione è disancorata a ciò che il quadro normativo prescrive, e si
tratta di prescrizioni che sono da un lato l’oggetto contrattuale della
prestazione di insegnamento, dall’altro danno valore legale al titolo di studio.
Già che ci sono, sottolineo un punto solitamente trascurato
che riguarda, nello specifico, la secondaria di secondo grado. La
programmazione disciplinare va sempre «calata» nel concreto del percorso. Come
non mi stanco di ripetere (e come esplicitato nelle Indicazioni nazionali
licei), una programmazione di filosofia (e faccio un solo esempio) per un LES,
per un liceo artistico, per un liceo classico NON possono essere uguali, perché,
se la programmazione non si collega ai risultati di apprendimento generali e specifici
e alle programmazioni delle discipline di indirizzo, l’intera disciplina rischia
di essere percepita come un corpo estraneo. Se vogliamo favorire apprendimenti
significativi (termine su cui tornerò in un’altra puntata), cioè «apprendimenti
che si consolidano anche perché collegati ad altri apprendimenti», la strada maestra
è quella del dialogo tra le discipline e tra i colleghi delle varie discipline.
C’è una dimensione collegiale, che da un
lato aiuta a comporre il quadro dei risultati di apprendimento, a trovare
contatti e collegamenti; dall’altro a evitare ripetizioni tautologiche. Se
tratto, per fare un esempio, in italiano, lo schema della comunicazione di Jakobson,
è inutile che il docente di inglese lo ripeta: lo si dà per acquisito ed è cosa
buona e giusta che i docenti lo esigano. A maggior ragione ciò dovrebbe valere
per l’istruzione professionale, in cui la dimensione collegiale della
programmazione è elemento costitutivo.
Soprattutto, regola invece valida per tutti, la
programmazione va collegata alla specifica classe. Per questo motivo, al primo
anno di ogni percorso, la programmazione non può a mio avviso non essere rivista
(nulla lo vieta) entro un paio di mesi di lezione. Perché le persone che ho
davanti NON sono dei computer, ma per l’appunto persone, che devo conoscere e
che devono conoscere me. Una programmazione che prescinda dall’ambiente di
apprendimento è, quella sì, mero adempimento burocratico: come tale, didatticamente
inservibile; come, peraltro, è didatticamente inservibile ogni programmazione
che non tenga conto del carico (e sovraccarico: sempre nefasto) cognitivo. Ad
aggiungere, si fa sempre a tempo. A differenziare (soprattutto) si procede in
corso d’opera.
L’importante, nella programmazione iniziale, è fare scelte
chiare di obiettivi, da un lato; dall’altro, di condividerle con gli alunni,
con i colleghi, con le famiglie.
In primo luogo, con gli alunni. Spiegare quale sarà, a
grandi linee, il percorso dell’anno è un elemento fondamentale di costruzione
del patto d’aula e costruisce, per l’appunto condividendolo, il canovaccio
destinato a fare da punto di riferimento alla progettazione dei vari segmenti
(segmenti: evito di calarmi nel ginepraio degli acronimi e nell’aspra contesa tra
unità didattiche e unità di apprendimento), alle scelte didattiche e valutative
più puntuali, ai momenti di individualizzazione (recupero e consolidamento in
corso d’opera di apprendimenti non ancora acquisiti o consolidati) e
personalizzazione (sviluppo delle predisposizioni individuali). Se della condivisione
coi colleghi si è detto, rispetto alle famiglie rappresenta il cuore del patto
educativo: condivido perché non ho nulla da nascondere, condivido perché, anche
costituzionalmente, docenti e famiglie hanno una corresponsabilità educativa.
Aggiungo: la condivisione con gli alunni e con le famiglie aiuta ad adottare un
linguaggio chiaro, preciso, privo di orpelli.
A questo punto, provo a dare una definizione essenziale e
riassuntiva: «La programmazione annuale fissa, all’inizio dell’anno
scolastico, con chiarezza, le tappe fondamentali del percorso didattico della
disciplina, illustra le scelte didattiche di fondo e le modalità di valutazione
educativa adottate, tiene conto della classe e ha, come punti di riferimento, quanto
specificatamente previsto dagli ordinamenti didattici dei gradi ovvero dal
curriculum d’istituto. Nella scuola secondaria di secondo grado è adattata ai
diversi percorsi previsti dall’istruzione liceale, tecnica e professionale. È redatta
anche attraverso un confronto collegiale con i colleghi del team/consiglio di
classe ed è condivisa con i colleghi, gli alunni e le loro famiglie».
Ma il motto deve essere partire dall’essenziale. Perché,
come diceva Leonardo da Vinci, «quello che è essenziale è perfetto».
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