Abbecedario... Amministrazione NON è burocrazia


La prima o la seconda lezione di ogni corso spiego sempre la differenza sostanziale tra amministrazione e burocrazia. E, confesso, rimbrotto chi le usa indifferentemente, trattandole come sinonimi. 
Non è un vezzo. Perché le parole sono importanti, riflettono dei concetti, e il loro uso si traduce in comportamenti, atteggiamenti, aspettative. Confondere amministrazione e burocrazia  contribuisce ad avvolgere la vita delle istituzioni n una nebbia in cui tutte le vacche sono grigie e a rifuggire dal sacrosanto principio in base al quale, nel bene o nel male, ogni cittadino impegnato a servire la Repubblica è responsabile delle proprie azioni. 
Usare i termini giusti, capire cosa sta succedendo, valutare le azioni significa anche saper, eventualmente, chiederne conto e ragione. Altrimenti, si precipita nel «ma si è sempre fatto così» che è uno dei malanni ancestrali della cosa pubblica.

Amministrazione, da amministrare, latino administrare, che deriva da minister, «servitore, aiutante», è l’apparato che cura, regola, sorveglia il buon andamento dell’interesse altrui. La pubblica amministrazione è costituita dall’insieme dei soggetti che hanno il dovere di curare, regolare, sorvegliare il buon andamento nell’interesse generale. Ogni settore dell’amministrazione ha un proprio specifico campo di intervento e finalità altrettanto specifiche, in base alle quali occorre declinare atti, procedure, attività.  

Burocrazia, al contrario, designa il potere autoreferenziale degli uffici. Secondo il Dictionnaire d'administration publique, il termine, fusione dal francese bureau e dal greco kratos, forse fu coniato dall’economista francese Vincent de Gournay (1712-1759). La prima citazione in italiano (1781) si deve al marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore del regno di Napoli a Parigi, che in una lettera inviata all'economista Ferdinando Galliani, citò «la forza destruttiva, dispotica ed illimitata della burocrazia». La burocrazia è il percolato della pubblica amministrazione: è innanzitutto un atteggiamento che privilegia il formalismo alla forma, che complica il semplice attraverso l’inutile e che, solitamente, è lardellato di ignoranza della norma o (quando va bene) di ignoranza dei principi che sorreggono la norma, la cosiddetta «ratio legis». 

L’atteggiamento burocratico è compulsivamente conservativo. Cauto allo sfinimento. Tremebondo. All’insegna del «se non è normativamente concesso, è proibito» e del «non si sa mai». Come corollario, il burocrate ha rimosso dal suo orizzonte culturale che rappresenta la Repubblica. E che la norma, la procedura esistono per l’uomo, e non l’uomo per la norma, per la procedura.

Caliamo il concetto nel mondo scuola. Una istituzione scolastica è una pubblica amministrazione, seppur particolare. La sua ragione sociale, la missione che le è affidata dalla Repubblica, è la tutela del diritto costituzionale all’istruzione. Il suo «particolare scopo» è di creare le condizioni per favorire, per ciascun alunno, i migliori risultati di apprendimento possibili e, nel contempo, per contribuire alla sua formazione come cittadino. Non solo: l’istituzione scolastica ha, in parallelo, la gestione anche amministrativa del suo personale, che è una componente essenziale di quel benessere organizzativo senza il quale diventa difficile creare comunità e ambienti di apprendimento positivi.

Se questa è la premessa, possiamo affermare che ogni processo, procedura, azione, progettazione che non sia rapportata a questi scopi è inutile; ogni processo, procedura, azione, progettazione che risulti contrastare con questi scopi è dannosa. Le norme segnano certo i confini del lecito e dell’illecito, ma aprono il campo delle opportunità: il «suum cuique tribuere».

Faccio un esempio, positivo, che mi è appena capitato sott’occhio. «Lei è Teresa, frequenta l'ultimo anno all’indirizzo Made in Italy dell’I.I.S. San Benedetto, mancano pochi giorni al suo esame di maturità. Ha un bambino, piccolo, non ha a chi lasciarlo, o forse si sente più forte insieme a lui.  Si vestono, lo prende in braccio, si presenta a scuola con lui. “Sono qui per sostenere i miei esami" dice alla commissione "ma ho qui lui, e ogni tanto quando ha fame dovrei anche spostarmi" e non sa ancora che succederà. "Signorina, lo sapevamo, vi aspettavamo. Non deve preoccuparsi dei giorni di mancata frequenza, è normale e ci sono cose più importanti di qualche lezione, ed è bello che lei sia qui, e ancora più bello che sia con lui. Si accomodi, può tenerlo in braccio il suo bambino, si sposti pure per allattarlo, e se le va, può affidarlo a noi, giocheremo un po’ insieme". Per la preside, Maria Venuti: “Questa nostra alunna ha seguito le lezioni fino a quando ha potuto e noi come scuola abbiamo fatto di tutto per sostenerla, oggi la commissione ha garantito che lei potesse svolgere tranquillamente la prova e, quando necessario, allattare anche la piccola che è stata 'coccolata' dai professori non impegnati nell'esame di maturità”».

Bene… la breve storia ci lascia paradossalmente stupefatti ed è assurta, nella sua felice anomalia, all'onore della cronaca…  ma questa dirigente non ha forzato nessuna norma. Ha usato il buon senso, stando all’interno della norma (il 62/2017 e il 122/2009) sia per quanto concerne le assenze sia per quanto concerne la condizione neomamma. Anzi, ha fatto propria la ratio legis sia della valutazione sia della tutela della maternità. Ha fatto amministrazione e ha servito la Repubblica, nel senso più pieno dei termini.

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