L'istruzione tecnica e professionale e la sfida del prossimo anno scolastico

Ho l’inveterata abitudine di tenere ben distinti il ruolo e il primato della politica e il ruolo dell’amministrazione, entrambe a servizio dell’interesse pubblico. Soprattutto quando le riforme non si limitano a un semplice belletto, ma hanno l’ambizione di cambiare ciò che non funziona o che potrebbe funzionare meglio, il «centrocampo amministrativo» diventa decisivo. Ricordava in altra epoca uno che se ne intendeva, Vittorio Emanuele Orlando, come «non le leggi invero fanno difetto in Italia, ma i meccanismi esecutivi; eppure a questi bisognerà chiedere ogni volta il massimo contributo effettivo, affinché la volontà del legislatore si compia». In tanti anni di attività amministrativa, svolta a vari livelli, di riforme rimaste al «caroamico» o abbandonate dopo la firma degli atti, per i più svariati motivi, ne conto a decine. Ogni tanto, faccio il contrappello dei pezzi rimasti a vagare tra gli uffici.

Ora, l’anno scolastico 2025/2026 rappresenta l’anno di snodo per la messa a terra della riforma dell’istruzione tecnica (che andrà a ordinamento a decorrere dall’anno successivo) e per una parallela valutazione della riforma dell’istruzione professionale, anche per comprendere quali istituti possano essere intercambiabili. Non si tratta di rubricare la questione a mero adempimento connesso al PNRR, qualcosa da “spuntare”, magari in zona Cesarini e via, per passare oltre. Non si tratta solo di pensare alle ingenti risorse impiegate (che, come spesso capita, possono essere spese o investite: e non si tratta di verbi intercambiabili). Si tratta di dare gambe a un’idea politica che interviene su un settore cardine del sistema di istruzione. Quando mi capita di spiegare gli anni del boom economico, mi soffermo spesso su come i protagonisti di quel formidabile miracolo fossero, certo, imprenditori lungimiranti, ma che avrebbero fatto ben poca strada senza il nerbo di risorse che arrivavano da un settore di istruzione tecnica e professionale saldamente ancorata al mondo del lavoro: anche lì, non tutti erano Adriano Olivetti. Ma il sistema, per come era stato assettato da Giuseppe Bottai nell’ultimo scorcio degli anni Trenta, mostrava di funzionare: il cuore altro non era che un rapporto stretto con imprese e territori e un accentuato grado di autonomia.  Che poi lo si sia gettato al vento negli anni 70, è storia nota; che da quegli anni si sia aperto un cantiere non ancora compiuto in maniera soddisfacente, lo è altrettanto. Attenzione: non è la «gara» mediatica alle iscrizioni ad essere il tema. Il tema è l’efficacia dei percorsi, determinante a colmare, in prospettiva, il «mismatch» nel mercato del lavoro, ma ancor più determinante nell’abbattere l’immenso spreco umano dato dalla dispersione, implicita, esplicita o variamente mascherata.

Ora, ci sono negli istituti professionali e tecnici, due elementi genetici che rappresentano una leva culturale importante.

Il primo, è la propensione alla sperimentazione. Germinata dalla fortissima autonomia concessa dagli anni Trenta ai decreti delegati del 1974, in parte interrotta o resa comunque complicata per un ventennio sino al regolamento dell’autonomia, ma pur sempre latente, è parte integrante della cultura dell’istruzione tecnica e professionale. Il secondo, che sostanzia il primo e la cui «curva è sovrapponibile», è il collegamento con il mondo del lavoro. L’uno senza l’altro non sta in piedi. Perché la difficoltà è evitare di rincorrere le richieste del mercato del lavoro, per scegliere invece di accompagnarle. E ciò può essere fatto solo se sono garantiti margini di autonomia tali da rendere effettiva la possibilità di modulare l’offerta sulla base di una richiesta strutturalmente variabile, senza per questo «risucchiare» l’area culturale senza la quale gli apprendimenti professionali rischiano di diventare meccanici e dunque presto obsoleti.

Detto chiaramente: l’amministrazione è chiamata ancora di più a «servire» le istituzioni scolastiche, e a ricordarsi che «il Sabato esiste per l’uomo, e non l’uomo per il Sabato». Il banco di prova è rappresentato non solo dal futuro regolamento dei percorsi dell’istruzione tecnica, ma dalla capacità di mettere a sistema e accompagnare le innovazioni. Tra quelle più rilevanti, oltre alla filiera 4+2, i campus della filiera formativa tecnologico-professionale: ma a rendere la sfida ancora più complessa e affascinante è il recente «+1», ovvero la possibilità di completare il percorso delle ITS Academy presso gli atenei per ottenere una laurea. Affascinante, perché viene incontro all’esigenza spesso sentita di un titolo di studio tradizionale e completo; complessa, perché occorre conoscere tutte le difficoltà di interfaccia tra mondo accademico e mondo dell’istruzione e tra due amministrazioni già diverse quando stavano sullo stesso tetto (e le problematiche connesse ai primi cicli dei percorsi di abilitazione dovrebbero mettere sull’avviso).

 Occorre perciò tenere presenti alcuni snodi.

Il primo, è la semplicità. Che non significa evitare il complesso, ma dipanarlo. E avere il complicato in orrore. Per parafrasare Guido Gonella, a lungo Ministro dell’istruzione, le norme attuative «o sono ala al volo, o diventano ceppo ai piedi». Ma la semplicità è possibile solo se, da un lato, si ha chiaro il quadro complessivo, il «dove vogliamo andare»; dall’altro, se si evita un, peraltro inutile, sovraccarico preventivo. Sessanta, settanta pagine di «linee guida» sono destinate, se va bene, ad essere lette dal DS o dal delegato alla bisogna e trasmettono una certa ansia da dirigismo pedagogico destinata, inevitabilmente, alla cassettizzazione, a prescindere dalla qualità o meno degli interventi.  Eccezione che conferma la regola, le Linee guida per la redazione del PEI nazionale, ma perché la loro struttura accompagnava il testo anziché, in qualche misura, sovrapporsi alla norma.

Il secondo, è la formazione. Non può essere risolta dalle adunanze telematiche, tutt’al più utili a dare un’infarinatura di informazione; e neppure da eventi in qualche misura coatti. A poter funzionare è solo la formazione puntuale sul territorio, anche e soprattutto usando le professionalità che dal mondo dell’istruzione vengono e che alcune pratiche o istituti li hanno già tradotti da anni in processi consolidati. Visto il settore, è impensabile non poter attivare iniziative che non siano aperte anche alle esperienze del mondo del lavoro.

Il terzo, è il coinvolgimento effettivo delle Regioni, degli altri enti territoriali, delle realtà produttive e delle comunità. La filiera non può divenire uno spazio circondato da steccati, ma un ponte di collegamento efficace, che si regge su un’analisi puntuale dei fabbisogni territoriali – eminentemente diversi tra nord, centro e sud – e si sviluppa in una prospettiva di sviluppo di competenze utili per l’intero territorio. Il campus della filiera formativa può e deve diventare il punto di incontro delle diverse realtà. Il centro della progettazione del futuro delle competenze di una realtà territoriale, economica, sociale.

Il quarto, è la valutazione, da intendersi in senso spiccatamente formativo: non come lista di buoni e cattivi, ma come processo di miglioramento atto ad aiutare comunità educanti, amministrazione e, perché no, la politica ad avere il polso continuo delle potenzialità e delle diversità, a conoscere per deliberare.


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