Abbecedario. L'apprendimento significativo e i suoi nemici

Come scrisse nel 1888 Aristide Gabelli, nel vergare le sobrie Istruzioni generali premesse agli altrettanto essenziali programmi per la scuola elementare Boselli, «quanto all'istruzione intellettuale, è da avvertire per prima cosa che le scuole devono somministrare un certo numero di cognizioni, tuttavia la mira ultima di tutto l'insegnamento non è riposta tanto nelle cognizioni stesse, quanto nelle abitudini che il pensiero acquista dal modo in cui vengono somministrate. A persuadersene basta considerare che le cognizioni non poche volte, e forse il più delle volte, dopo un po' di tempo di desuetudine dagli studi, vengono in molta parte dimenticate, quando invece il modo di pensare dura tutta la vita, entra in tutte le azioni umane ed è causa, secondo la dirittura o stortura sua, di effetti benefici, o di errori e di disinganni».

Gabelli, sia detto per inciso, era uomo che combinava in sé l’insegnamento, la capacità amministrativa, lo studio accademico. Quando affermava qualcosa, aveva perfetta cognizione di quel che diceva, di come andava detto e delle ricadute pratiche.

1. L'apprendimento significativo

Ora, come in altri casi, la scienza (in questo caso, le neuroscienze e la psicologia dello sviluppo) conferma di ciò che le migliori persone di scuola hanno sempre saputo, praticato e predicato (spesso invano). Per tradurre Gabelli in termini moderni, occorre puntare agli «apprendimenti significativi», ovvero «agli apprendimenti che si che si consolidano anche perché collegati ad altri apprendimenti». Attenzione. Perché le teorie di cui vi accennerò hanno il pregio di fondarsi su come il nostro cervello funziona, sulla sua architettura.

La nozione la dobbiamo a David Ausubel, seguace di Jan Piaget, per il quale l’apprendimento significativo avviene quando i nuovi concetti e le nuove informazioni si ancorano alle conoscenze preesistenti nella mente dell’alunno arricchendole e modificandole. In tal modo, le nuove informazioni sono integrate nella struttura cognitiva esistente, facendo sì che l’alunno possa comprenderle e dunque non solo ricordare meglio i nuovi contenuti, ma essere in grado di riutilizzarli nel tempo e di contestualizzarli (l’assimilazione e l’accomodamento di cui parlava per l’appunto Piaget).

Va da sé che l’insegnante può aiutare il processo di «significativizzazione» dell’apprendimento, ma non può imporlo… la comunicazione avviene quando emittente e destinatario entrano in sintonia. Per dirla con Joseph Novak, «l’insegnamento e l’apprendimento sono degli eventi interattivi e coinvolgono i pensieri, i sentimenti e le azioni sia del docente che dell’alunno. Qualsiasi evento educativo rappresenta un’azione condivisa per cercare uno scambio di significati ed emozioni tra l’alunno e il docente. Questo scambio o negoziazione diventa emozionalmente positivo e intellettualmente costruttivo quando gli studenti allargano le proprie conoscenze rispetto a una porzione di sapere o di esperienza; viceversa, si rivela negativo o distruttivo quando manca la comprensione». La significatività dell’apprendimento, dunque, ha come presupposto la consapevolezza, nell’alunno, che quanto comunicato è importante per lui. Quando sento tesisti asserire «così l’apprendimento diventa significativo», non posso che pensare «beata gioventù». Meglio dire che «con tale modalità, l’apprendimento ha maggiori possibilità di diventare significativo».

A questo scopo, l’ambiente di apprendimento, per come lo abbiamo definito, è lo sfondo essenziale; la «differenziazione didattica» quanto mai opportuna, perché ovviamente le strutture cognitive cambiano da alunno ad alunno; la ciclicità, ovvero la ripresa a distanza di tempo di un argomento per consolidarlo e arricchirlo, raccomandabile, perché consente di partire dal SEMPLICE e di evitare di adultizzare l’alunno. Con l’avvertenza che ciclicità non significa ridondanza, da evitare tassativamente.

Va da sé che pretendere di farcire l'alunno come un tacchino da imbandire per il giorno del Ringraziamento ottiene esattamente l’effetto opposto: nel migliore dei casi, il risultato sarà un apprendimento meccanico o ripetitivo, una memorizzazione (a breve…) buona giusto per la prova di verifica. Peggio mi sento se l'apprendimento imposto risulta slegato da quanto la psicologia dello sviluppo ci ha insegnato.

2. Il carico cognitivo

Il che ci porta ad accarezzare un altro concetto, quello di carico cognitivo. Perché la memoria di lavoro non è infinita.

John Sweller, uno psicologo australiano, nel 1988, ha introdotto il concetto di carico cognitivo, ovvero la quantità totale di attività mentale imposta alla memoria di lavoro in un dato istante. Detto volgarmente, lo sforzo mentale richiesto per acquisire un determinato concetto. La teoria del carico cognitivo (Cognitive Load Theory, CLT) si presta in particolare ad aiutare nella progettazione di una lezione o di un corso, anche se gli sviluppi successivi la pongono alla base di una teoria dell’istruzione. Resta un punto: se non si tiene conto del funzionamento della memoria a breve termine e della limitatezza della memoria di lavoro e se non le si ottimizza, l’azione didattica naufraga.

Il carico cognitivo grava sui processi di attenzione, di comprensione e di acquisizione di contenuti, perché questi sfruttano la memoria di lavoro, ovvero la capacità di elaborare informazioni attivando più processi in contemporanea attraverso diversi canali, che ha una capienza limitata per tutti e per chi ha un disturbo è anche ridotta. Questa è come il buffer del PC: quando apri troppe applicazioni insieme, il sistema va in crush e perdi tutti i dati che non hai avuto modo di salvare nei diversi «scomparti» di memoria.

Naturalmente la motivazione ad apprendere un determinato argomento agevola tutto il processo di acquisizione e consolidamento degli apprendimenti (un argomento interessante, un insegnante coinvolgente, un rapporto affettivo). La paura invece ha l'effetto contrario: a breve termine funziona per "salvarsi la vita", ma scampato il pericolo l'informazione viene rimossa, innescando spesso reazioni di evitamento e fuga di fronte a compiti di apprendimento.

Sweller classifica lo «sforzo mentale» in carico cognitivo intrinseco, dovuto alla maggiore o minore difficoltà dell’argomento di studio e, mi viene da dire, alla maggiore o minore significatività potenziale, in ragione anche del singolo alunno; e in carico cognitivo estraneo, ovvero «il troppo e il vano» che pesano senza essere necessari o utili al processo di insegnamento/apprendimento: le troppe applicazioni aperte nel buffer. Fred Paas e Jeroen van Merrienborer, entrambi psicologi dello sviluppo olandesi, hanno aggiunto il concetto di «carico cognitivo pertinente», detto «germanico», ovvero, per riprendere il filo del nostro ragionamento, lo sforzo necessario per «significativizzare» l’apprendimento.

Dalla teoria CLT si dipartono una serie di indicazioni utili per la didattica. Ma la prima, ed essenziale, è che il «sovraccarico cognitivo» devasta irrimediabilmente il processo di insegnamento e spedisce l’apprendimento significativo nel Walhalla del vanverismo pedagogico. La CLT può funzionare anche come «setaccio di Socrate» utile a «dimensionare» una sfilza di pratiche didattiche o di parole d’ordine modaiole destinate al fallimento e alla conseguente frustrazione, non a causa del destino cinico e baro, ma del non tenere conto della realtà.

Se poi, a livello macro, il legislatore, come nel 1888, quantomeno dialogasse col mondo della didattica neuroscientificamente orientata, perderemmo le lenzuolate di risultati o obiettivi di apprendimento variamente affastellati e ne guadagneremmo in solidità educativa.

3. Il deficit cumulativo nell’apprendimento

Aggiungo un altro pezzetto, strettamente pertinente. Se si produce un vuoto nell’apprendimento, le ripercussioni sono drammatiche. È il famoso «gli mancano le basi!», perché ovviamente ogni lacuna pregiudica, più che il voto in pagella, la struttura cognitiva. Diventa non solo un «anello mancante» della catena, ma produce un «deficit cumulativo nell’apprendimento, che definisco come l’impossibilità esponenziale di raggiungere apprendimenti significativi dovuta al progressivo accumularsi di lacune nel processo di apprendimento che depauperano la struttura cognitiva»: perché se mi manca l’anello, non ho dove agganciare gli apprendimenti successivi e quelli successivi ancora.

Pensiamo alla struttura di un popolarissimo videogioco, Candy Crash. Se non supero il livello conquistando perlomeno una stellina, il sistema non mi fa andare oltre, perché non ho acquisito le abilità necessarie ad affrontare il livello successivo.  Sistema saggio, da cui imparare: e siccome dalla scuola del «marcia o muori» siamo passati al paradigma dell’integrazione, il compito di iniettare cemento nelle fondamenta spetta ai docenti. Va da sé che i mini corsi di recupero, variamente allestiti, hanno in questo quadro un ben scarso significato, perché intervengono quando la falla è già enorme, mentre assumono rilievo le strategie di individualizzazione da adottare in corso d’opera.

Commenti

  1. Grazie Professore, sempre chiaro e illuminante.

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    1. Grazie a lei... spero queste pillole possano esservi utili per alcune "messe a punto"!

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