Sperimentazioni, innovazioni... Parte prima. Qualche idea preliminare

Anni fa ebbi uno scambio di idee con una DS appena immessa in ruolo che mi aveva contattato, scandalizzata dal fatto che la scuola a lei affidata non avesse nel PTOF alcune «pratiche innovative» che all’epoca andavano per la maggiore. Mentre parlava, avevo sott’occhio non tanto il RAV, ma gli indicatori che ne costituiscono il presupposto. Era un ottimo comprensivo. Risultati Invalsi al di sopra della media e scarto tra i migliori e peggiori contenuto; buona rispondenza al consiglio orientativo (una scheda semplice, ma fatta perbene); laboratori per l’integrazione delle competenze disciplinari di base lungo tutto l’anno e sin dalla primaria; ottimi risultati a distanza nei percorsi successivi (a proposito… continua a sfuggirmi la ratio in base alla quale una istituzione scolastica non abbia «a sistema» i dati degli esiti dei suoi ex alunni); curriculum ben costruito e senza fronzoli; mai un problema. Sarebbe valso il vecchio detto: «Se funziona, non aggiustarlo» e provai a spiegarglielo. Ma niente. Animata dal sacro fuoco, alimentato da non ricordo più quale esponente del druidismo pedagogico, procedette comunque e a prescindere. Due anni dopo, la signora mutava di incarico; l’istituzione scolastica aveva lasciato nel frattempo per strada quattro prime (nelle cittadine il passaparola è micidiale) e soprattutto quella tranquilla solidità che ne costituiva il tratto distintivo.

Ho letto un bel po’ di letteratura in merito ai «processi di innovazione» che, salvo pochi casi, mi ha lasciato perplesso, vuoi per il tono roboante con cui erano scanditi i dogmi di particolari «dover essere»; vuoi per l’uso di un linguaggio inutilmente astruso; vuoi per la palese insostenibilità dei processi proposti. Tra le eccezioni, il datato ma ottimo Vairetti – Medicina, Innovazione e buone pratiche nella scuola; l’edizione dell’Index for inclusion curata da Ianes e Dovigo nel 2008, che ho usato anche per abbozzare alcune schede operative, ad esempio sull’ambiente di apprendimento, sui compiti a casa, sul personale neoarrivato.

Negli anni ho cercato di ricondurre le letture e le esperienze, positive e negative, che ho incontrato a vario titolo intorno a una scheda via via affinatosi e sperimentato nel corso degli esami a Scienze della Formazione Primaria, senza altre pretese che dare una sommaria ed essenziale traccia di come impostare un'azione di cambiamento. 

La riproporrò, partendo da una considerazione. Le nostre azioni sono anche determinate dal su che cosa e come veniamo valutati. Nel caso specifico, il modello di valutazione dei DS, adottato a partire da quest’anno scolastico, inserisce una serie di obiettivi e indicatori che inevitabilmente andranno a guidare l’azione dirigenziale nel prossimo triennio. Come occorre fare in amministrazione, li do per acquisiti. Quelli sono, quelli vanno perseguiti. Il «cosa» contempla, tra l’altro, ben 8 punti su 80 dedicati a «sperimentazioni e/o innovazioni»: Attuazione di sperimentazioni e/o innovazioni organizzativo-didattiche; Sperimentazioni di flessibilità organizzativa e didattica; Adesione ad iniziative nazionali di innovazione didattica; Presenza di percorsi curricolari o extracurricolari caratterizzati da innovazioni metodologico-didattiche. La doppietta innovazione/sperimentazione ritorna a volte, qua e là, negli obiettivi regionali. Quanto al «come», l’indicatore è booleano. Ovvero, per noi boomer, il «celo/manca» che scandiva gli scambi di figurine all’intervallo. Vero è che alla voce «Utilizzo di forme di monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi di miglioramento e rendicontazione dei risultati raggiunti» sono destinati ben 3,5 punti. Ma pur sempre in booleano: e trattasi di un adempimento connesso alla Rendicontazione sociale triennale normativamente prevista, dunque di un obbligo.

Data questa griglia, costituita da una serie di azioni da compiere e da una valutazione fondata, prevalentemente, sull’averle compiute o meno, nelle mani dei DS e delle Comunità educanti c’è il come decidere di «popolarla». Fatte salve due voci spietatamente «qualitative» (i tempi delle autorizzazioni delle rate dei contratti di supplenza e i tempi di pagamento delle fatture), il resto mette in campo la professionalità dei DS.

Ci sono tre sistemi in generale. Il primo è quello, burocratico, dell’adempimento. Carico il minimo sindacale: celo/manca. Il secondo, è entusiasticamente cumulativo: facilmente riconoscibile dalla presenza compatta di qualsiasi parola d’ordine comparsa in tema di istruzione negli ultimi lustri, supercazzolosamente combinate in periodi la cui sintassi sfiderebbe il compianto Luca Serianni: perseguo la qualsiasi, calo sul collegio gli ukase, punto l’indice sui refrattari e buonanotte. Sono sistemi destinati a presentare il conto. Sul primo, potrebbe venire il giorno in cui delle azioni si potrebbe legittimamente chiedere conto e ragione; sul secondo, l’accumulazione, magari impositiva, di interventi si rivela inutile e alle volte insostenibile, sino a far saltare gli equilibri interni.

C’è poi una terza strada, che è poi quella variamente adombrata da tutti i modelli di valutazione della dirigenza via via sperimentati. Usare la valutazione come leva del miglioramento. Nei prossimi giorni vi proporrò lo schema possibile e, soprattutto, sostenibile cui vi accennavo. Non ottimo, non eccellente, non innovativo, tutt’altro che una ricetta. Più modestamente, un aiuto praticabile all’esercizio del buon senso.


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